giovedì 25 aprile 2013

Il volto autentico di un’isola antica




A Sassari la Biennale dell’Artigianato Sardo

Il volto autentico di un’isola antica

Di Marco Magnani



La Sardegna ha, nel campo dell’artigianato artistico, un più che brillante passato, cui fa riscontro un presente ancora vitale, malgrado i non pochi problemi che – non solo nell’isola – travagliano il settore . La XVI Biennale dell’Artigianato Sardo che ha aperto i battenti il 25 Giugno a Sassari nel Padiglione << Tavolara >>, mostra lo spaccato di una situazione produttiva il cui livello tecnico nel quadro dell’artigianato italiano si conferma in genere altissimo, e dove l’eredità della tradizione popolare continua ad innescare interessanti episodi creativi; ma dove anche – va detto – si avverte ormai l’esigenza di estendere a tutto il quadro produttivo quello slancio innovatore che resta per il momento circoscritto ad alcuni aspetti di essi.

Che fra gli intenti dell’Isola (l’istituto che fin dal 1957 organizza il lavoro degli artigiani sardi, e che, grazie all’intervento di artisti come Eugenio Tavolare, Ubaldo Badas, Mauro Manca e Aldo Contini, ha impresso alla loro produzione quel carattere inconfondibile che tutt’oggi serba) vi sia quello di incoraggiare tale rinnovamento fa credere una rassegna come la Firmato, che nella scorsa Biennale presentava tappeti realizzati su disegno di noti artisti locali, e – sempre nell’ambito della tessitura – lo spazio dato quest’anno a una serie di notevoli tappeti progettati da Piero Zedde ed eseguiti a Nule, Sarule, Zeddiani e in altri centri.

Ma soprattutto, lo fa sperare la scelta intelligente di allestire nel salone centrale una mostra di gioielli di Vincenzo Marini, un orafo che per la novità della ricerca e la smagliante qualità della proposta estetica ci appare oggi un indiscusso protagonista nel campo del gioiello d’arte – non ancora noto quanto meriterebbe, e a livello non solo nazionale.

La mostra, curata da Giuliana Altea, copre gli ultimi quindici anni di attività di Marini: quelli cioè in cui il suo lavoro registra una svolta fondamentale, dettata dall’0esigenza di affidare il proprio legame con la Sardegna non più a una rivisitazione e rielaborazione della tradizione orafa locale, bensì ad un’indagine sull’utilizzo delle pietre tipiche del tessuto geologico isolano; pietre non preziose, come la fluorite, il calcedonio, l’ossidiana, e perfino l’umilissimo granito, che divengono nelle mani dell’orafo ornamento di estrema raffinatezza.

Le otto vetrine della mostra ci condicono di sorpresa in sorpresa: si passa dalla rigorosa plasticità dei gioielli in ossidiana realizzati verso il 1980 (neri, casti, essenziali nel loro rigore) alla trasparenza morbida ed ambrata dei monili in fluorite e calcedonio di qualche anno dopo, ravvivati da sinuosi intrecci di filo d’oro che graduano accortamente le vibrazioni della luce; alla fase più << costruttiva >>inaugurata qualche anno fa, che accoppia spirito ludico e ferma sapienza progettuale con risultati assolutamente inediti.

È quest’ultima fase quella che a nostro avviso registra le punte più alte, approfondendo una riflessione sul gioiello contemporaneo già iniziata nel periodo precedente: come nota Altea nella sua presentazione i pezzi di Marini non solo si allineano alla parte migliore della gioielleria d’avanguardia contemporanea per il loro rifiuto (evidente nella scelta di pietre << povere >>) di presentarsi come meri simboli di status e di ricchezza, ma si pongono in stretto rapporto col corpo, sottolineandone la gestualità e la tensione comunicativa.

Di qui l’importanza accordata dall’orafo a dettagli che potrebbero sembrare secondari, come ganci, attacchi e chiusure: che, invece di essere – come avviene nella maggior parte della banale gioielleria corrente – accessori indispensabili ma sentiti come estranei al disegno dell’oggetto, divengono parte integrante del progetto complessivo e coerenti con esso. Sono infatti le parti che connettono il gioiello al corpo e come tali vanno evidenziate.

Nascono così straordinari orecchini (per l’esattezza, mono – orecchini) che si proiettano fuori dal lobo come spirali o lo trapassano come frecce, che si fissano intorno al padiglione, che si allungano sulla guancia; anelli che vanno ben oltre la lunghezza di una falange; spille che esibiscono l’ago di chiusura invece di occultarlo. Una vivacissima segnaletica – nota ancora Altea – che commenta e talvolta ironicamente stravolta quella trasmessa dal corpo; una segnaletica che si esprime anche attraverso il suono e il movimento, con l’oscillare, il frusciare, il vibrare, il tintinnare delle pietre e del metallo.

Gioielli arditi, ma – lasciatevelo dire – straordinariamente seduttivi , e non solo per bellezza formale, ma anche per il modo suadente – a volte perfino un po’ perverso – con cui il dialogano con l’epiderme. Nel loro calibrato mèlange di equilibrio formale ed ironia, razionalità progettuale e caratterizzazione etnica, povertà e raffinatezza, i gioielli di Marini sembrano rispecchiare la complessità e la ricchezza della scena artistica contemporanea. Contro la volgarità del lusso ostentato, del rampantismo imbrillantato dell’altro ieri, il fascino del gusto e della cultura. Sono gioielli per gli anni Novanta.

 Accanto alla mostra di Marini (che ci auguriamo l’Isola voglia sottrarre all’effimero con la pubblicazione di un catalogo), la Biennale ospita un omaggio al ceramista Federico Melis, protagonista, tra gli anni Venti e i Trenta, della stagione << eroica >> delle arti applicate sarde.

Inventore, col fratello Melkiorre, di un singolare << dèco – rustico >> ispirato al repertorio decorativo dell’arte popolare sarda, Melis lasciò l’isola già negli anni Trenta per trasformarsi nell’ultimo periodo della sua vita a Urbania, l’antico e prestigioso centro ceramistico di Castel Durante, dove seppe promuovere una rinascita della gloriosa tradizione passata; e appunto dal Museo Civico di Urbania proviene il piccolo gruppo di opere – tutte, tranne due, degli anni Cinquanta e Sessanta – esposte a Sassari.

Una scelta purtroppo minima e non sempre felice, in cui gli oggetti di grande bellezza e suggestione si accostano a lavori di gusto per lo meno dubbio. L’intento della rassegna è però anche quello di stimolare un confronto fra l’artigianato artistico di ieri e quello odierno: e infatti ampio spazio è dato alla produzione dei ceramisti contemporanei.

La ceramica è stata fin dai daglio anni Cinquanta uno dei settori trainanti di tutto rispetto: tra loro ricordiamo almeno Giampaolo Mameli, sensibile ed attento nei suoi buccheri alla qualità della materia ed agli effetti di superficie; Francesco Farci, che utilizza la terracotta per un discorso incentrato sul recupero della tradizione contadina; Massimo Boi, che accentua forse un po’ troppo quest’anno le qualità decorative del suo lavoro. Rilevate assenza importanti come quelle di Paola Dessy e Anna e Mauro Scansellati. A quando una serie antologica di Silecchia, presente solo ai piani inferiori e un po’ in suoplesse?

Una parola infine sull’allestimento, come sempre lussuoso, e quest’anno allietato dalla nota colorata di decine di piccole ceramiche raffiguranti i simboli dell’arte popolare sarda (gli uccelli, la croce, il sole, il calice, eccetera) appese in gaio disordine sui grandi telai che spartiscono lo spazio del salone.


(Articolo pubblicato da "La Nuova Sardegna" in data Venerdì 16 luglio 1993)

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