A Sassari la Biennale
dell’Artigianato Sardo
Il volto autentico di
un’isola antica
Di Marco Magnani
La Sardegna ha, nel campo dell’artigianato artistico, un più
che brillante passato, cui fa riscontro un presente ancora vitale, malgrado i
non pochi problemi che – non solo nell’isola – travagliano il settore . La XVI
Biennale dell’Artigianato Sardo che ha aperto i battenti il 25 Giugno a Sassari
nel Padiglione << Tavolara >>, mostra lo spaccato di una situazione
produttiva il cui livello tecnico nel quadro dell’artigianato italiano si
conferma in genere altissimo, e dove l’eredità della tradizione popolare
continua ad innescare interessanti episodi creativi; ma dove anche – va detto –
si avverte ormai l’esigenza di estendere a tutto il quadro produttivo quello
slancio innovatore che resta per il momento circoscritto ad alcuni aspetti di
essi.
Che fra gli intenti dell’Isola (l’istituto che fin dal 1957
organizza il lavoro degli artigiani sardi, e che, grazie all’intervento di
artisti come Eugenio Tavolare, Ubaldo Badas, Mauro Manca e Aldo Contini, ha
impresso alla loro produzione quel carattere inconfondibile che tutt’oggi
serba) vi sia quello di incoraggiare tale rinnovamento fa credere una rassegna
come la Firmato, che nella scorsa Biennale presentava tappeti realizzati su
disegno di noti artisti locali, e – sempre nell’ambito della tessitura – lo
spazio dato quest’anno a una serie di notevoli tappeti progettati da Piero
Zedde ed eseguiti a Nule, Sarule, Zeddiani e in altri centri.
Ma soprattutto, lo fa sperare la scelta intelligente di
allestire nel salone centrale una mostra di gioielli di Vincenzo Marini, un
orafo che per la novità della ricerca e la smagliante qualità della proposta
estetica ci appare oggi un indiscusso protagonista nel campo del gioiello
d’arte – non ancora noto quanto meriterebbe, e a livello non solo nazionale.
La mostra, curata da Giuliana Altea, copre gli ultimi
quindici anni di attività di Marini: quelli cioè in cui il suo lavoro registra
una svolta fondamentale, dettata dall’0esigenza di affidare il proprio legame
con la Sardegna non più a una rivisitazione e rielaborazione della tradizione
orafa locale, bensì ad un’indagine sull’utilizzo delle pietre tipiche del
tessuto geologico isolano; pietre non preziose, come la fluorite, il
calcedonio, l’ossidiana, e perfino l’umilissimo granito, che divengono nelle
mani dell’orafo ornamento di estrema raffinatezza.
Le otto vetrine della mostra ci condicono di sorpresa in
sorpresa: si passa dalla rigorosa plasticità dei gioielli in ossidiana
realizzati verso il 1980 (neri, casti, essenziali nel loro rigore) alla
trasparenza morbida ed ambrata dei monili in fluorite e calcedonio di qualche
anno dopo, ravvivati da sinuosi intrecci di filo d’oro che graduano
accortamente le vibrazioni della luce; alla fase più << costruttiva
>>inaugurata qualche anno fa, che accoppia spirito ludico e ferma
sapienza progettuale con risultati assolutamente inediti.
È quest’ultima fase quella che a nostro avviso registra le
punte più alte, approfondendo una riflessione sul gioiello contemporaneo già
iniziata nel periodo precedente: come nota Altea nella sua presentazione i
pezzi di Marini non solo si allineano alla parte migliore della gioielleria
d’avanguardia contemporanea per il loro rifiuto (evidente nella scelta di
pietre << povere >>) di presentarsi come meri simboli di status e
di ricchezza, ma si pongono in stretto rapporto col corpo, sottolineandone la
gestualità e la tensione comunicativa.
Di qui l’importanza accordata dall’orafo a dettagli che
potrebbero sembrare secondari, come ganci, attacchi e chiusure: che, invece di
essere – come avviene nella maggior parte della banale gioielleria corrente –
accessori indispensabili ma sentiti come estranei al disegno dell’oggetto,
divengono parte integrante del progetto complessivo e coerenti con esso. Sono
infatti le parti che connettono il gioiello al corpo e come tali vanno
evidenziate.
Nascono così straordinari orecchini (per l’esattezza, mono –
orecchini) che si proiettano fuori dal lobo come spirali o lo trapassano come
frecce, che si fissano intorno al padiglione, che si allungano sulla guancia;
anelli che vanno ben oltre la lunghezza di una falange; spille che esibiscono
l’ago di chiusura invece di occultarlo. Una vivacissima segnaletica – nota
ancora Altea – che commenta e talvolta ironicamente stravolta quella trasmessa
dal corpo; una segnaletica che si esprime anche attraverso il suono e il
movimento, con l’oscillare, il frusciare, il vibrare, il tintinnare delle
pietre e del metallo.
Gioielli arditi, ma – lasciatevelo dire – straordinariamente
seduttivi , e non solo per bellezza formale, ma anche per il modo suadente – a
volte perfino un po’ perverso – con cui il dialogano con l’epiderme. Nel loro
calibrato mèlange di equilibrio formale ed ironia, razionalità progettuale e
caratterizzazione etnica, povertà e raffinatezza, i gioielli di Marini sembrano
rispecchiare la complessità e la ricchezza della scena artistica contemporanea.
Contro la volgarità del lusso ostentato, del rampantismo imbrillantato
dell’altro ieri, il fascino del gusto e della cultura. Sono gioielli per gli anni
Novanta.
Accanto alla mostra di
Marini (che ci auguriamo l’Isola voglia sottrarre all’effimero con la
pubblicazione di un catalogo), la Biennale ospita un omaggio al ceramista
Federico Melis, protagonista, tra gli anni Venti e i Trenta, della stagione
<< eroica >> delle arti applicate sarde.
Inventore, col fratello Melkiorre, di un singolare <<
dèco – rustico >> ispirato al repertorio decorativo dell’arte popolare
sarda, Melis lasciò l’isola già negli anni Trenta per trasformarsi nell’ultimo
periodo della sua vita a Urbania, l’antico e prestigioso centro ceramistico di
Castel Durante, dove seppe promuovere una rinascita della gloriosa tradizione
passata; e appunto dal Museo Civico di Urbania proviene il piccolo gruppo di
opere – tutte, tranne due, degli anni Cinquanta e Sessanta – esposte a Sassari.
Una scelta purtroppo minima e non sempre felice, in cui gli
oggetti di grande bellezza e suggestione si accostano a lavori di gusto per lo
meno dubbio. L’intento della rassegna è però anche quello di stimolare un
confronto fra l’artigianato artistico di ieri e quello odierno: e infatti ampio
spazio è dato alla produzione dei ceramisti contemporanei.
La ceramica è stata fin dai daglio anni Cinquanta uno dei
settori trainanti di tutto rispetto: tra loro ricordiamo almeno Giampaolo
Mameli, sensibile ed attento nei suoi buccheri alla qualità della materia ed
agli effetti di superficie; Francesco Farci, che utilizza la terracotta per un
discorso incentrato sul recupero della tradizione contadina; Massimo Boi, che
accentua forse un po’ troppo quest’anno le qualità decorative del suo lavoro.
Rilevate assenza importanti come quelle di Paola Dessy e Anna e Mauro
Scansellati. A quando una serie antologica di Silecchia, presente solo ai piani
inferiori e un po’ in suoplesse?
Una parola infine sull’allestimento, come sempre lussuoso, e
quest’anno allietato dalla nota colorata di decine di piccole ceramiche
raffiguranti i simboli dell’arte popolare sarda (gli uccelli, la croce, il
sole, il calice, eccetera) appese in gaio disordine sui grandi telai che
spartiscono lo spazio del salone.
(Articolo pubblicato da "La Nuova Sardegna" in data Venerdì 16
luglio 1993)
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